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Adolescenti senza rete

Igor e Andrea. Due nomi, due adolescenti, un'unica fine.

Igor che muore asfissiato emulando un gioco su internet, Andrea che muore precipitando dal tetto di un centro commerciale mentre si fa un selfie. Due notizie terribili a distanza di pochissimo tempo l'una dall'altra. La ricerca del limite, la sfida. Perché? Ci si interroga. A che scopo?
Gli adolescenti non temono la morte, la propria, si sentono immortali. Se pensiamo a ognuno di noi, se proviamo a ricordarci di quando facevamo parte della schiera dei "teen" la morte su di noi non aveva effetto, la paura semmai l'avevamo della morte di qualcuno di caro attorno a noi, ma della nostra no e anche noi, seppur in modo diverso, abbiamo trasgredito a volte anche sfidando la vita.
Ma oggi tutto ci appare ben diverso e le dimensioni di questa diversità sono esagerate. Viviamo nell'epoca della ipermordernità dove tutto appare possibile. La cosa più concreta che abbiamo è il nostro corpo che, però, oggi, non è più una stabile unità, può essere cambiato, modificato, alterato. Non solo con piercing o tatuaggi, ma con interventi ben più profondi di chirurgia estetica per diventare ciò che non si è o non si è più, restare più giovani sfidando il tempo o, ancora, cambiando genere. Il corpo, da concreto e stabile che era, diviene anch'esso modificabile, una astrazione. E più le cose si fanno astratte, più diventano virtuali, lontane da noi, diventano non vere, instabili.
L'ipermodernità ha perso di vista l'uomo. La conoscenza è sempre stata corporea, ha usato il corpo come tramite. Il limite del mio corpo è dove prende posto il tuo. Chi sono ha immediatamente a che fare con chi sei tu e cosa non sono io. Tutto oggi sembra correre insensatamente verso la smaterializzazione, anche della vita stessa.
C'è tantissima informazione, spesso contraddittoria, ma non c'è conoscenza. E dove si trova un senso in un mondo in cui tutto sembra possibile ma non c'è conoscenza e, in molti casi, conoscenza profonda?
La ipermodernità ci ha spinti sempre più all'esterno, fuori da noi, lontani dalle fragilità e dalle nostre emozioni. Non le contempla.
Pensiamo solo alla quantità di emoticon utilizzate al posto delle parole. Le faccine non vengono usate solo perché è più veloce la comunicazione o per smorzare l'intensità di una frase o per rendere più chiaro o anche più ambiguo quello che stiamo scrivendo. Alle faccine, uguali per tutti, viene delegata la trasmissione di uno stato d'animo assolutamente personale, soggettivo, il nostro di quel momento. Vengono usate come vocaboli al posto dei concetti, sostituiscono le parole che, prima di essere espresse, dovrebbero richiedere un pensiero profondo, una elaborazione di uno stato d'animo, dovrebbero comunicare, diventare simbolo di qualcosa che stiamo intimamente provando noi, in quel momento solo noi, e non un semplice segno.
La velocità nel comunicare e nel restare connessi ma, prima ancora, la velocità con la quale scappiamo dalle nostre emozioni, non le consideriamo, porta all'utilizzo di segni grafici creati da altri a livellare ciò che sentiamo e a tenere distante ciò che potremmo esperire. Ma così ci rende tutti "tranquillamente" uguali.
Tutto ciò che si prova viene esternalizzato, messo fuori da sé. Tutto ciò che non si prova non si conosce. Se porto fuori da me le mie emozioni perché non le so neppure nominare, non so che sono emozioni, finisco per allontanarmi da me e parcellizzare non solo il mio corpo ma anche me stesso.
L'andare oltre, la non abitudine a fermarsi ad ascoltare, a parlare, a vedere ha portato ad avere paura delle cose che sentiamo perché non sappiamo cosa sono e come affrontarle. L'allontanamento dal qui e ora di ciò che provo e non so nominare ha reso reale quello che viene trasmesso da altri perché immediatamente fruibile e pronto all'uso, comprese le esperienze.
Mantra dominante è stare bene, essere vincente, se no sei subito un "looser" e nessuno vuole ritrovarsi nella parte del perdente. L'allontanamento da tutto ciò che non viene considerato "cool" secondo la legge dei vari influencer del momento porta a prendere le distanze da ciò che non conosciamo e neppure ci diamo la pena di capire se potrebbe piacerci. La diversità spaventa, l'omologazione rassicura. Voler stare bene, sacrosanto, è diventato devo stare bene a tutti i costi non occupandomi delle cose mie che non mi consentono di stare bene. Il ben-essere a tutti i costi, nonostante i richiami personali, ha allontanato tutto ciò che è discordante, il brutto, il grasso, chi ha una menomazione, il differente e, in ultima analisi, ha portato a provare a uccidere la morte nella nostra vita e nella nostra società. Non se ne può parlare. Tutti ne hanno paura e nessuno la affronta più. Per paura del limite estremo ci si allontana ma allontanarsi rende solo quella cosa lì dalla quale si stanno prendendo le distanze ancora più grande e spaventosa, inaffrontabile. Ma senza limiti non c'è senso in quello che stiamo facendo ed è proprio il limite a dare senso a tutto ciò che viene prima.

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